“Ho fatto un sogno. Ho sognato la realtà: mi sono svegliata di soprassalto felice che fosse un sogno, e quando mi sono resa conto che era vero, che ero sola, che non avevo la testa sul tuo collo e sulla tua spalla, e le mie gambe fra le tue, ho sentito che non potevo, che non potevo vivere..”
"La voce umana" è la banale, straordinaria, comunissima, miserabile e splendida storia di un abbandono d’amore, scritta dall’artista poliedrico Jean Cocteau. Una storia che conosciamo tutti e che tutti abbiamo già vissuto, stando ora da un lato e ora dall’altro del muro di dolore.
Una lacerazione di cui non abbiamo in fondo più voglia di sentir parlare, se non quando la magia del palcoscenico riesce a far apparire la bellezza della trama che racchiude ogni esperienza della nostra vita in un disegno che ha un senso, a tratti.
Il regista
Andrea Novicov, di origini ticinesi, si forma alla Scuola Dimitri per poi proseguire la sua formazione a Lisbona e Milano con Dominic De Fazio, insegnante dell’Actor Studio. Dopo molti anni di esperienze in scena come attore e nel cinema e molti viaggi tra Argentina, Canada e Italia, Andrea Novicov si stabilisce in Svizzera Romanda, dove crea una propria compagnia, la Compagnie Angledange e svolge parallelamente l’attività di insegnante all’Accademia d’arte drammatica Paolo Grassi di Milano e all’Alta scuola di teatro La Manufacture di Losanna. Nel 2009 è nominato direttore artistico del Centro d’arti vive di Neuchatel, l’Arc en Scènes, e produce molti spettacoli che appaiono nei principali cartelloni delle stagioni teatrali della Svizzera romanda e all’estero. Il suo teatro esplora nuove forme e nuovi linguaggi, studia e si interroga sulla società, mettendo costantemente in evidenza gli aspetti collettivi del processo creativo.
Note di regia
“La voce umana” di Jean Cocteau è il testo di una lunga e definitiva chiamata telefonica, in forma di monologo teatrale, durante il quale la protagonista femminile cerca disperatamente di resistere all’evidenza dell’abbandono da parte dell’uomo amato.
Per scoprire l’attualità di un’opera è talvolta importante ricollocarla innanzitutto nel suo contesto storico, il 1932. Il telefono all’epoca è ancora un oggetto moderno, misterioso, carico di simboli legati a una mutazione del mondo che, oggi lo sappiamo, è ridefinita e modellata dalla tecnologia.
Jean Cocteau, attento alle dinamiche della sua epoca porta in scena quest’oggetto, fa appello come diremmo oggi a un nuovo media, per esplorare i cambiamenti che la modernità provoca nei rapporti tra gli individui.
La comunicazione telefonica ci permette di entrare in contatto sincronico con l’altro, ma anche di essere alla presenza… della sua assenza, fisica e visiva. La sola voce è sufficiente a trasmettere la verità di un rapporto umano o è il primo passo verso l’incomprensione? È veramente possibile percepire l’altro in assenza del linguaggio non verbale?
Cocteau ci pone già nel 1932 di fronte alla questione della comunicazione a distanza, oggi diremmo virtuale, tra due individui, e di fronte all’interrogativo delle conseguenze delle negazione del confronto diretto con l’altro. La realtà non è mai come la desideriamo e questa evidenza ci impone una scelta: sfuggire alla delusione o farne materia di arricchimento di sé, di allenamento alla duttilità e alla sorpresa che ci insegna ad essere nel mondo.
Siamo tutti stati ora soggetto ora oggetto dell’abbandono, e “La voce umana” tratta della materia sensibile della sofferenza che proviamo comunque, al di qua o al di là del verbo. È vero che il dramma è la materia prima dell’avvenimento teatrale, ma portare in scena “La voce umana” ci permette anche di domandarci quale sia il ruolo del teatro nel 2015: ha ancora senso approfittare dell’atto scenico per riversare una nuova dose di esperienze dolorose sullo spettatore, soggetto consenziente e passivo, o possiamo forse cominciare a mettere in atto un processo di resilienza in questa cerimonia pubblica?
E’ possibile ad oggi, di fronte a eventi storici tanto drammatici, prendersi cura di un pubblico saturo di sofferenze collettive e mostrargli il dolore, sia pure di un singolo individuo, che abbia tuttavia in sé una bellezza e una possibilità di riscatto?
Per concludere, confrontarsi con il patrimonio del repertorio drammatico è importante, ma unicamente se ci teniamo lontani da un rapporto filologico e museale con le opere. Non avremo dunque in scena né un salotto borghese né un divano, ma neanche una cornetta del telefono reale o una donna in vestaglia da camera. Abbiamo sostituito un certo trovarobato teatrale con delle geometrie plastiche più sobrie, delle proiezioni video che possono ricordare le avanguardie artistiche degli anni ’30, e un uso dell‘amplificazione della voce dell’interprete che rimette al centro dello spettacolo “La voce umana”, la sua potenza, la sua fragilità e l’estrema bellezza di questo strumento dell’anima.
Andrea Novicov